Europa: Essere o non essere. Questo è il problema
La pandemia del coronavirus sta offrendo all’Europa un’opportunità unica per decidere se desidera esistere o meno. Questo dipende dalla misura in cui i governi degli Stati che la compongono e le forze politiche che la dirigono dimostreranno il desiderio di confermarne il ruolo, l’unico per garantire la sua sopravvivenza sulla scena internazionale: una vera comunità di destino, o, come direbbero i tedeschi, particolarmente affezionati a questo concetto, una Shicksalsgemeinshaft – una casa comune. Questa comunità di destino, per esistere, deve dimostrare di essere capace di una solidarietà che è principio fondamentale nei trattati, solidarietà da esercitarsi non solamente tra gli Stati Membri, ma anche tra cittadini, per garantire che coloro che sono stati più duramente colpiti da questa crisi possano trovare un porto sicuro in questa comunità di destino, e che non siano abbandonati a sé stessi, e divenire preda facile di politiche non solo euroscettiche, ma anche xenofobe, razziste, sessiste, ed cis-eteronormative.
Per offrire una risposta, dobbiamo cominciare con una diagnosi adeguata della situazione europea pre-pandemia, vale a dire dell’Europa dove la disaffezione popolare ha condotto alla prima defezione, la Brexit. La stessa Europa che osserva la crescita dell’ultradestra e dei nazionalismi xenofobi e sessisti, i movimenti del ‘no gender’, molti dei quali ovviamente euroscettici. A nessuno sfugge che siamo arrivati a questa Europa a seguito della crisi economica e finanziaria del 2008, dai cui effetti molti stati europei non si sono ancora ripresi pienamente. Siamo anche in molti a pensare che la situazione attuale è scaturita dalla risposta incentrata sull’austerità che, a partire dalle domande europee ed esplicitata dal blocco dei paesi nordici, si è imposta a coloro che maggiormente erano stati colpiti dalla crisi, causando livelli inauditi di disoccupazione, precarietà lavorativa, mancanza di tutele e crescente disuguaglianza sociale tra i paesi dell’Unione e all’interno di ciascuno di essi.
Senza giungere mai ad abbandonare la propria ortodossia fiscale, è certo che, di fronte al malaise europeo, nel marzo 2016, la Commissione ha inaugurato l’iniziativa del Pilastro Europeo dei Diritti Sociali, scaturita dalla consapevolezza che quest’ulteriore evoluzione della dimensione europea era necessaria per ridurre le fratture e i gli effetti disintegranti di una decade di politiche di austerità, che avevano mutato la percezione dell’Unione come una forza (moderatamente) favorevole alla giustizia sociale. Nel gennaio 2019, in coincidenza del ventesimo anniversario dell’introduzione dell’euro, abbiamo assistito al Presidente della Commissione Europea, Jean Claude Juncker, fare un passo in più e recitare un vero e proprio mea culpa, riconoscendo di aver sottoposto il popolo greco ad una “austerità avventata”, peccando di mancanza di solidarietà e offendendone la dignità. Riprendendo l’agenda del Pilastro Europeo dei Diritti Sociali, al momento della sua elezione, la neo-presidente Von der Leyen ha promesso al parlamento europeo che la Commissione avrebbe presentato proposte legislative per l’introduzione di un salario minimo entro i primi cento giorni del suo mandato per poco dopo lanciare la visionaria idea del “Green Deal” europeo. Nel frattempo, però, è divampata la pandemia.
Per capire la portata di queste sfide, ma anche la particolare opportunità che la pandemia offre per un’Europa più unita, dobbiamo chiarire che, a differenza della crisi del flusso dei migranti e rifugiati (problema a cui l’Europa non ha saputo dare una risposta comune, alimentando, anche qui, il populismo euroscettico), non si tratta più di un problema che riguarda singoli stati, quelli con le frontiere esterne con paesi maggiormente interessati dai flussi di persone (Grecia, Italia, o Spagna), ma di una pandemia globale che sta affliggendo e affiggerà tutti gli europei, e che, in una certa qual misura, dato che il virus non conosce confini, non può risolversi se non in forma globale. Però, al contempo, dobbiamo avere ben chiara questa sfida, poiché gli effetti di questa crisi, non solo come minacce alla salute e alla vita, ma anche come deterioramento delle condizioni di vita che andranno a seguire il congelamento economico che è implicato dallo stop alle attività, non toccheranno tutti in egual misura. Ci sono, e continueranno ad esserci, differenze notevoli tra i vari pasi, tra regioni, e tra gli stessi cittadini dei singoli paesi, in funzione di una pluralità di variabili.
I cittadini europei sono stati travolti dal coronavirus in Stati con un tessuto industriale e un sistema di sanità pubblica più o meno robusti, e forzieri pubblici più o meno pieni; con maggiore o minore esperienza nella gestione di crisi simili; con indici di disuguaglianza sociale più o meno marcati, e, soprattutto, in diversi scaglioni temporali, permettendo ai governi di questi Stati di reagire con maggiore o minore tempestività, di imparare dall’esperienza degli altri, e produrre o acquistare i prodotti medici che ora, a livello globale, scarseggiano. Bisogna considerare che, tra i fattori che spiegano l’impatto differenziato della pandemia, se ne trovano molti, la maggioranza in verità, che sono casuali e altri per cui la responsabilità non può essere limitata a nessun governo in particolare. Le diverse risposte dei governi europei si impronteranno, logicamente, non solo a questo insieme di circostanze, ma anche a tradizioni di gestione della cosa pubblica diverse, che includono diversi approcci filosofici, culturali e morali in qualche misura distinti, come emerge con evidenza dal “dibattito” in corso tra Paesi Bassi, da un lato, e Portogallo e Spagna in merito a se, in base ad una logica utilitarista, ha senso dedicare le risorse delle terapie intensive alle persone anziane, o se, seguendo un approccio deontologico, abbiamo tutti il dovere morale di tentare di salvare ogni vita.
In questo contesto, senza entrare in tecnicismi, i modi di affrontare la pandemia a livello europeo sono essenzialmente due. Il primo, che al momento sembra prevalere, è quello per cui ogni Stato cerca di guardare ai propri interessi di breve respiro, senza contare sugli aiuti dei propri vicini, ma cercando di imparare dalle loro esperienze e affrontando in solitaria il dilemma morale e politico se occorra limitare i contatti interpersonali in modo più rapido o severo per contenere al massimo l’espansione della pandemia e rallentare l’attività economica, con i costi umani che, senza dubbio, questa opzione presenterà. L’altro approccio è capire che, per quanto riguarda tanto la gestione della crisi sanitaria come della crisi economica che senza dubbio seguirà, l’obbligo morale principale non si può limitare ai cittadini nazionali, ma si estende ai cittadini europei, in un destino che è auspicabilmente comune. Questa seconda opzione impone che i costi della crisi – della pandemia e della ricostruzione che apparirà necessaria – siano condivisi; uno sforzo molto più intenso per coordinare le risposte in merito alla crisi sanitaria, ma soprattutto resistere alla tentazione di attribuire responsabilità per la crisi, per la sua gestione, e per la capacità di risposta in merito ai suoi effetti, in un esercizio che finirebbe per stabilire gerarchie, paternalismi, o supremazie, di alcuni Stati al di sopra di altri.
In questa seconda prospettiva, si celebrano ovviamente i passi che, ad oggi, sono adottati dalle istituzioni europee, come l’impegno della Banca Centrale Europea di acquistare titoli del debito pubblico fino all’ammontare di 750 miliardi di Euro; gli aiuti diretti, per un ammontare di 37 miliardi, forniti dalla Banca Europea per gli Investimenti, che possono essere un grande sollievo per la piccola e media impresa; la decisione della Commissione di sospendere il limite del deficit contenuto nel Patto di Stabilità, per consentire ai governi di spendere senza limiti nella gestione della crisi; i fondi multimilionari per l’acquisto comune del materiale sanitario e dello sviluppo del vaccino. Si applaudono poi i gesti di Francia e Germania, che hanno inviato mascherine all’Italia, o, con riferimento alla Germania, che ha accolto pazienti italiani in alcuni suoi ospedali. Da ultimo, è da apprezzare lo sforzo compiuto dalla Commissione Europea, nonché la determinazione della Presidente Von der Leyen, per aver approntato 100 miliardi di euro, garantiti dagli Stati Membri, per il finanziamento di un fondo europeo per la mitigazione dei rischi correlati alla disoccupazione (fondo SURE), a sostegno degli strumenti nazionali che erogano benefit alle persone che hanno perso il proprio lavoro. Sempre da questa prospettiva, si alzano critiche alle divergenze di posizioni che si sono manifestate all’ultimo Consiglio Europeo, con alcuni, come la Germania o i Paesi Bassi, che ritenevano sufficienti gli attuali meccanismi e, in particolare, il Meccanismo Europeo di Stabilità, che permette di attivare il fondo salva-stati (come già accadeva durante la crisi finanziaria), e quelli che, come la Spagna, l’Italia, o la Francia, ritengono che sia necessario attuare meccanismi che consentano una mutualizzazione del debito (come l’emissione di eurobond); un massiccio piano di investimenti pubblici europei , e, in ogni caso, un sistema di bail out non condizionato a riforme strutturali che risultino in ulteriore sofferenze o umiliazioni per i paesi che ne abbiano bisogno.
È pertanto necessario ricordare al gruppo dirigente europeo, ma anche ai capi di Stato e Governo degli Stati europei, che è necessario aiutare i cittadini europei a sviluppare una sincera lealtà all’Unione Europea, la cui legittimazione democratica è meno diretta, che non parla la lingua madre della maggior parte degli europei, e che è composta da popoli molto distanti, geograficamente, culturalmente, e storicamente. Ed è necessario che questo gruppo dirigente capisca che difficilmente si potranno raggiungere questi obiettivi se, di fronte ad una crisi comune che minaccia beni tanto primari come la stessa vita, e che deriva da un fattore tanto casuale come la diffusione globale di un virus proveniente dalla Cina, finiranno per permettere un dibattito che si incentra su quello che ci differenza, rispetto a quello che ci unisce, e che non consideri seriamente la necessità di collettivizzare il danno risultante dalla pandemia che, evidentemente, colpisce più violentemente coloro che sono più svantaggiati. Saranno senza dubbio questi Stati e cittadini più svantaggiati coloro che, domani, saranno maggiormente disillusi, e che firmeranno la sentenza di morte dell’Unione Europea. A danno di tutti.
A questo proposito, bisognerà assicurare che la solidarietà dell’Unione Europea sia esercitata in modo da assicurare l’inclusione di soggetti deboli e maggiormente vulnerabili, più violentemente colpiti da questa crisi, per evitare che le risorse messe a disposizione tramite questi ingenti – e, per il momento, ancora ipotetici – mezzi finanziari vadano a vantaggio di un creamy layer, gruppi di persone già privilegiate e, per quanto possibile, meno svantaggiate. Se infatti queste risorse che, ci auguriamo, verranno messe in campo, dovessero essere spese dimenticandosi dell’impatto diversificato della pandemia, e delle reazioni alla pandemia stessa, si finirebbe non solo per violare un principio fondamentale nel moderno costituzionalismo – quello di eguaglianza – e creare effetti moralmente inaccettabili, ma anche per allargare la distanza percepita tra l’Unione, i governi nazionali, e queste persone, ulteriormente cementando la percezione di un’Europa ‘per le élite’. Persone migranti, carcerati, donne, probabilmente anche persone LGBTI, sono tutte, in questo momento, chiamate a sostenere sacrifici che appaiono maggiori, e più intensi, rispetto a coloro per cui una casa e un lavoro sicuro, una cittadinanza europea, e la libertà, per quanto limitata dalle misure di quarantena, non sono in discussione. Le rivolte, subito represse, che sono esplose nelle carceri, i continui appelli relativi alla protezione delle donne, nei cui confronti si teme una recrudescenza della violenza, i gridi di aiuto di colf, badanti, braccianti nei campi, e la solitudine e l’isolamento che sovente subiscono le persone LGBTI, non possono essere dimenticate nel piano di ricostruzione che l’Unione, se vuole esistere, dovrà porre in campo.
La necessità di questi interventi appare tanto maggiore considerando le conseguenze che la disaffezione per il modello Europeo – con tutti i suoi limiti che a lungo sono stati criticati – può rappresentare per i diritti di tutti, e delle minoranze in particolare. In un momento in cui le forze euroscettiche sono in larga parte collocate su posizioni di destra conservatrice e populista – come è certamente il caso, tra gli altri, in Italia, Francia, Spagna, Polonia, e Ungheria –, il fallimento del progetto Europeo presenterebbe rischi rilevanti, certamente maggiori, per persone migranti, queer, trans, e per le donne, che si troverebbero a fronteggiare forze politiche reazionare galvanizzate da quella che rappresenterebbe, dal loro punto di vista, una sicura vittoria politica. Nonostante la dimensione dei diritti nell’Unione Europea possa essere oggetto di critiche, a volte dure, è altrettanto vero che la risposta a questo deficit non potrebbe essere trovata nel fallimento del progetto Europeo, e nella vittoria che questo rappresenterebbe per una destra sovente xenofoba, razzista, sessista, ed eteronormativa. Ed ecco quindi che, in questo momento, l’Europa ha la possibilità di esistere, ed esistere riformata. E le due cose, sempre più diventano un unicum. L’Europa deve esistere e resistere, e deve farlo come modello sociale, inclusivo, e solidale: se fallisse in questo ambito, tutti gli europei ne sarebbero penalizzati, ma il prezzo più alto sarebbe certamente imposto alle persone più vulnerabili, che finirebbero per essere doppiamente “umiliate ed offese”.
Ma ciò che è fondamentale sottolineare è che, in realtà, abbiamo un dovere morale nei confronti di ciascun componente della razza umana, e non solo dei cittadini europei. Anche da questo punto di vista è quanto mai necessario che l’Europa esca rafforzata da questa crisi. Gli Stati Uniti non sono in condizione di esercitare la funzione di guida globale di altri tempi: con le elezioni in vista, vittime della polarizzazione brutale della società americana, e di un presidente capriccioso e imprevedibile che sta dimostrando una pessima gestione della pandemia, non possono nemmeno fare finta di coordinare una risposta globale. Di fronte a questo scenario, la Cina si sta facendo avanti, ed è infatti il primo paese a mandare mascherine in Italia, riempiendo il vuoto esistente e tendendo una mano in aiuto, ma allo stesso tempo offrendo al mondo un modello di gestione della crisi che può risultare efficiente, ma che si traduce in meccanismi che sacrificano gli standard di intimità e libertà costituzionalmente garantiti nei paesi europei. In ragione di tutto questo, una presa di posizione coordinata e una solidarietà di portata veramente europea possono non solo evitare che la pandemia causi le migliaia di vittime che una maggiore coordinazione e una maggiore solidarietà potrebbero evitare, ma anche salvare il modello politico più giusto ed equo che, finora, ha caratterizzato la storia dell’umanità e il vero orgoglio europeo: lo Stato di diritto sociale e democratico forgiato a partire dal secondo conflitto mondiale. L’impresa richiede di ampliare il circolo di coloro che si considerano partecipi di un destino comune a tutto il territorio europeo e di farlo dando priorità alle necessità di chi è più vulnerabile. Solo così l’Europa sarà in condizione di tendere la sua mano al resto del mondo, come è suo dovere fare, ed esercitare la guida che riflette l’impegno dei suoi valori fondamentali.
Stefano Osella, Research Fellow at Max Planck Institute for Social Anthropology Department “Law and Anthropology” & Ruth Rubio Marin, Full Professor of Constitutional Law of the University of Seville